Italia – Progettare in modo inclusivo

Un ingegnere (Renzo Andrich) e un architetto (Stefano Maurizio) dialogano sui principi dello “Universal Design” >> VIDEO

Scarica la trascrizione integrale del dialogo >> PDF DOCX

RENZO

Sono Renzo Andrich, di Belluno, nel nord dell’Italia. Sono alto circa un metro e ottanta, porto gli occhiali e ho i capelli color argento come s’addice alla mia età (66 anni). Vi parlo dal mio studio e alle spalle ho una parete bianca. Sono sposato, con Lucia, abbiamo quattro figli. Sono ingegnere, e da oltre quarant’anni mi occupo di tecnologie assistive, ossia di ausili per l’autonomia delle persone con disabilità. Per intendersi, protesi, carrozzine, strumenti informatici, adattamenti della casa, tutto ciò insomma che è utile alle persone con disabilità per migliorare l’autonomia e la qualità di vita. Per oltre 37 anni ho lavorato come responsabile delle attività di ricerca in questo campo in una grande organizzazione italiana con sede a Milano – la Fondazione Don Carlo Gnocchi – che si occupa di cura, riabilitazione e promozione sociale delle persone con disabilità. 

STEFANO

Sono Stefano Maurizio, di Venezia. Sono alto un metro e ottanta (un metro e cinquanta seduto), ho 61 anni, anch’io ho i capelli color argento come dice Renzo, ma molti meno di lui. Sono sposato con Mariangela e abbiamo una figlia. Ah, dimenticavo, per spostarmi uso una carrozzina manuale da quando, molti anni fa, ho fatto un incidente in auto. Sono Architetto ed ho uno studio con alcuni colleghi. In tutto ciò che progettiamo cerchiamo di applicare i principi del cosiddetto “Universal Design”: una progettazione che tenga conto delle esigenze di tutti e delle diverse abilità di ciascuno. L’esperienza ci ha insegnato che venendo incontro alle esigenze delle persone con disabilità o delle persone anziane si migliora la qualità complessiva dell’ambiente, per tutti. Ci siamo occupati di direzione lavori di molte opere pubbliche, ma facciamo anche consulenze per sistemare abitazioni private per favorire la massima autonomia possibile alle persone con disabilità.

RENZO

In questa conversazione vorremmo offrire alla vostra riflessione alcuni concetti di base in tema di accessibilità. In che modo l’ambiente fisico che ci circonda può contribuire all’autonomia, alle relazioni, alla qualità della vita della persona che ha dei limiti nelle proprie capacità fisiche, sensoriali o cognitive, per cause congenite o per effetto di un trauma, di una patologia o semplicemente dell’età avanzata?  Un noto giornalista italiano, Franco Bomprezzi, profondo conoscitore del mondo della disabilità, anche perché egli stesso in carrozzina fin dalla nascita, così aveva scritto nell’introduzione a un manuale tecnico che parlava di architettura accessibile: “Se io fossi Belzebù, il diavolo, e dovessi decidere quale categoria di persone collocare nella parte più buia e terrificante dell’inferno, metterei certamente architetti e ingegneri. Sapete perché? Perché sono i principali responsabili della nostra disabilità: sono quelli che costruiscono quelle barriere che ci ostacolano la vita”. Che ne pensi, Stefano?

STEFANO

Beh, in fondo è vero. Al di là della metafora, Franco ha detto una verità che forse non è ancora del tutto capita. Tutti abbiamo qualche limite nelle nostre abilità motorie, visive, uditive, intellettive o relazionali. Tutti usiamo qualche tecnologia per superare i nostri limiti: ad esempio, l’automobile (come faremmo a superare certe distanze andando a piedi?) o il telefonino (come faremmo a comunicare a distanza?). Chi è un “disabile” dunque? Uno ad esempio che, come me, ha un’abilità più limitata nella mobilità rispetto alla media della popolazione, e che deve ricorrere a strumenti “speciali” (che chiamiamo “ausili” o “tecnologie assistive”) quando gli strumenti o gli ambienti di uso comune non sono stati progettati secondo i principi del “design universale”.

RENZO

Infatti, il limite non è di per sé un “problema”: è un’esperienza costitutiva dell’uomo; tutti la sperimentiamo prima o poi in certi momenti della vita, soprattutto in età avanzata. Ancor meno dovrebbe essere un problema oggi, con tutte le possibilità tecnologiche che abbiamo. È la società che con le sue barriere rende la disabilità un problema. È la società il primo “malato” che noi tecnici (architetti, ingegneri, designer…) siamo chiamati a curare.

STEFANO

Sì. La disabilità non è un attributo della persona, bensì una situazione in cui posso trovarmi, nel momento in cui i miei limiti confliggono con una barriera: non a caso l’OMS parla di disabilità in antitesi a funzionamento, e la convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità parla di persona con disabilità mettendo in evidenza che prima di tutto c’è la persona in tutte le sue dimensioni, e che la sua disabilità nasce nel momento in cui essa interagisce con barriere.

RENZO

Facciamo un esempio. Pensiamo a un telefonino. Voglio fare un regalo a una mia parente anziana che desidera comunicare con me, ma che per gli acciacchi dell’età ha difficoltà a vedere, a sentire, a manipolare con le mani. Cercherò un telefonino facilmente impugnabile, con lo schermo ben visibile e luminoso, con i tasti grandi, illuminati e in rilievo, con un tono forte dello squillo, e magari con poche funzioni, solo quelle a lei utili. Così quando vorrà telefonarmi, lo potrà fare senza fatica, in piena autonomia, con gusto, e non la metterò in difficoltà quando sarò io a telefonarle. Supponiamo di regalarle invece uno smartphone più moderno ed elegante, piccolo nero e piatto, con tanti bottoni, icone e App che richiedono gesti raffinati e precisi per il loro azionamento: probabilmente ci metterà un bel po’ a rispondere a una mia chiamata, prima di riuscire a impugnarlo, capire da una scritta minuscola chi sta chiamando, sfiorare nel punto e nella direzione giusta per prendere la linea e così via. Nel primo caso il telefonino sarà una “tecnologia abilitante”, nel secondo caso una “tecnologia disabilitante”.

STEFANO

Potremmo dire che il primo è un buon regalo per la mamma, il secondo è per la suocera.

RENZO

Naturalmente è una battuta, ma teniamola a mente, ci aiuta a ricordare il concetto. Ci aiuta anche un motto che circola da tempo in Europa: “Good design enables, bad design disables”. Ossia: ciò che è ben progettato rende abili, ciò che è mal progettato rende disabili. Possiamo avere un “ambiente abilitante” o un “ambiente disabilitante”. Se mi muovo in carrozzina, sarò perfettamente abile nella mobilità finché non troverò una barriera: ad esempio una scalinata o una rampa troppo ripida, scivolosa, pericolosa. Se ho una sordità, ma ho un apparecchio acustico ben regolato sulle mie esigenze, sarò abile nella comunicazione, fintantoché non troverò un ambiente pieno di echi e riverberi. Le caratteristiche ambientali (accessibilità, sicurezza, rumore, illuminazione, ergonomia, ecc…) influiscono in modo determinante sull’abilità o sulla disabilità della persona. Stefano, potresti farci qualche esempio?

STEFANO

Sì, faccio tre esempi, uno urbanistico, uno nel campo dei trasporti, uno nell’edilizia privata. Il primo riguarda la mia città, Venezia, che è un gioiello architettonico ma che possiamo anche immaginare come un’unica grande barriera architettonica: pensate: 121 isole collegate 436 ponti. Rendere Venezia accessibile a tutti è una grande sfida, Fortunatamente c’è stato un periodo in cui l’accessibilità è stata posta al centro delle politiche della mobilità e dell’abitare. Una sfida complicata dalla complessità del patrimonio storico e della quantità di monumenti architettonici tutelati, anche loro in qualche modo fragili che necessitano della cura di architetti e ingegneri; un lavoro di ricucitura e di rammendo che rende affascinante il nostro lavoro.

Siamo partiti dalla considerazione che oggi, e ancor più domani, in un quadro di mobilità sostenibile, molte persone si sposteranno su mezzi a ruote: non parliamo solo di carrozzine per persone con disabilità, manuali o elettroniche (tra l’altro sempre più evolute), ma anche di monopattini elettrici, skate, pattini, bici a pedalata assistita e, tipici di Venezia, i trolley e i carretti per trasportare qualsiasi genere di merce, dal frigorifero alle damigiane di vino. Ebbene ogni gradino, anche piccolissimo, rappresenta un ostacolo. Ecco allora la decisione di sovrapporre alle gradinate dei ponti, in alcuni percorsi, delle rampe amovibili adatte ad ogni tipo di ruota.

Abbiamo proceduto in modo partecipativo. Partendo da un primo progetto architettonico, l’amministrazione Comunale ha fatto costruire un prototipo di una rampa in scala 1:1 per poter verificare la bontà delle dimensioni (pendenza, larghezza, spessore del corrimano, ecc.) e dei materiali (struttura, piano di calpestio, parapetto). Alla valutazione del prototipo, assieme ai progettisti, sono stati invitati i rappresentanti delle principali associazioni di persone con disabilità e dei vari enti responsabili del patrimonio edilizio, paesaggistico, storico e artistico della città. Assieme, si è potuto provare fisicamente l’uso della rampa con vari tipi di mezzi: carrozzine manuali, carrozzine elettroniche, deambulatori, trolley, scarpe con fondo in gomma e in cuoio, e in varie condizioni metereologiche (asciutta, bagnata ecc..). Si è arrivati così a scelte ampiamente condivise, pur nel rispetto dei reciproci ruoli, responsabilità ed esigenze personali e sociali.

Per il corrimano si è scelto un tubo a sezione circolare, in acciaio, con un diametro di 45 mm; per la pavimentazione, delle lastre di fibrocemento, perché è l’unico materiale tra quelli sperimentati che riesce a coniugare i requisiti di resistenza meccanica, leggerezza, facilità nel montaggio e impermeabilità alle nebbie saline, rimanendo allo stesso tempo antisdrucciolevole e di colore naturale. Per il parapetto si è optato per una rete in acciaio con effetto visivo trasparente e filigranato. Molti ponti sono stati attrezzati in questo modo, e notiamo che la maggioranza delle persone che vi passano preferisce la rampa ai gradini. E ciò ci conforta nella nostra ipotesi che partendo dalle esigenze delle persone con diversi tipi di disabilità si migliora la qualità fisica della città, a beneficio della facilità di utilizzo di tutti i cittadini e della sostenibilità ecologica.

RENZO

Interessante. E il secondo esempio, quello riguardante i sistemi di trasporto pubblico?

STEFANO

Sempre a Venezia, recentemente è stato introdotto il Tram elettrico come nuovo mezzo per il trasporto pubblico, che serve l’entroterra metropolitano ma arriva anche fino a piazzale Roma, che è la porta di accesso al centro storico sulla laguna. Oltre agli indubbi benefici di sostenibilità ambientale ed emissioni zero di CO2, ha dato ottimi risultati anche sul piano dell’accessibilità. Il mezzo si sposta su una monorotaia posta a filo asfalto, ha un pianale estremamente basso (22 cm) che consente una salita molto facile a chiunque, grazie alle piattaforme di fermata perfettamente complanari con il mezzo, a loro volta collegate ai marciapiedi attraverso raccordi di pendenza molto limitata. Il mezzo e le fermate sono dotati di segnalazioni sonore e visive di facile comprensione, con indicazione delle fermate sia all’interno del tram che nello spazio fermata, utilizzabili autonomamente anche da parte di persone ipovedenti o non vedenti o sorde, o semplicemente con le difficoltà comuni delle persone anziane. Avendo dovuto ristrutturare per il Tram buona parte della struttura viaria, si è colta l’occasione per rendere accessibili tutti i marciapiedi per i circa 22 km corrispondenti al percorso tramviario.

RENZO

Mi sembrano esempi molto chiari. L’accessibilità migliora la funzionalità, la sostenibilità, la bellezza della città, il piacere di abitarvi e di viverla, moltiplica gli spazi di aggregazione. E per quanto riguarda l’abitazione, lo spazio di vita personale, cosa puoi dirci?

STEFANO

Mi viene in mente la signora Manuela, che ha una malattia invalidante progressiva (la sclerosi multipla) per cui oggi cammina con un deambulatore e probabilmente in futuro dovrà ricorrere a una carrozzina elettronica. La sua casa è vicino ad un fiume con un alto argine dove passa la strada. Il percorso d’accesso presentava una forte pendenza in discesa per arrivare dalla strada al giardino e poi due gradini in salita per accedere al portico e al portone di ingresso. Insomma, un “saliscendi” sempre più difficile da fare in autonomia. Per fortuna, la casa all’interno è tutta su un piano.

Abbiamo risolto realizzando un nuovo percorso pedonale che dalla quota della strada, alzando il cancello pedonale, arriva fino alla quota di ingresso dell’abitazione. Si sono così eliminati in un sol colpo sia la ripida discesa che i due gradini. Il percorso ha una pavimentazione antisdrucciolevole, è dotato di corrimano e ha una pendenza leggerissima (2%), affrontabile in modo facile, sicuro ed autonomo sia con il deambulatore che con una carrozzina; il dislivello tra il percorso e il giardino è stato poi raccordato con del terreno dove la signora ha intenzione di piantare delle rose, sua grande passione. Un intervento tutto sommato molto semplice e poco costoso. Diciamo che quando ci si confronta con le esigenze individuali di una persona con disabilità, oltre ai principi del design universale occorre tener conto di tante altre cose: la condizione clinica, l’età, le abitudini, gli ausili utilizzati e previsti in futuro. Sembra più complesso, in realtà è più facile perché si progetta assieme al cliente, lavorando assieme per la massima autonomia possibile.

RENZO

Grazie Stefano. Ora aggiungiamo un altro concetto. Oggi assistiamo a una crescente integrazione di architettura e ingegneria. Il mondo costruito è pieno di oggetti tecnologici che sono consapevoli della nostra presenza; geolocalizzati; capaci di interagire con noi riconoscendo la nostra voce, il nostro volto o determinati parametri biometrici; collegati nella nuvola di Internet (cloud) ad algoritmi di intelligenza artificiale in grado di tradurre da una lingua all’altra, prevedere certe nostre intenzioni e risolverci problemi in anticipo; connessi l’uno all’altro attraverso la cosiddetta IoT (“Internet delle cose”); l’automobile a guida autonoma non è più fantascienza: questione di qualche anno e sarà fruibile a chi oggi non può guidare. Tutto questo apre scenari inediti in tema di sicurezza e vulnerabilità sociale, ma apre anche possibilità mai viste finora di rendere ogni spazio e oggetto fruibile in modo autonomo ed efficace da tutti. In sostanza: con le possibilità tecnologiche di cui oggi disponiamo, non ci sono più scuse per non considerare il “design universale” un vero e proprio standard di progettazione.

STEFANO

Assolutamente sì. Ma ricordiamoci di una cosa: per quanti progressi si possano fare sul piano dell’accessibilità ambientale, questa, da sola, non sempre è sufficiente. Spesso la persona deve a sua volta fare un passo di adattamento all’ambiente dotandosi di apposite tecnologie, le cosiddette “tecnologie assistive”, che in italiano chiamiamo “ausili”. Anche qui lo sviluppo tecnologico permette soluzioni un tempo inimmaginabili, che però non dappertutto e non per tutti sono disponibili. Renzo, tu che ti occupi da sempre di questo aspetto, e presiedi una rete di informazione internazionale sugli ausili, ci fai qualche esempio?

RENZO

Certo. Una carrozzina, una lente, un bastone bianco, un apparecchio acustico, un comunicatore, un montascale, un corrimano, o anche semplici utensili come una posata adattata, o un dispensatore di pillole per persone con difficoltà di memoria… sono tutti esempi di tecnologie assistive. Queste tecnologie sono essenziali per promuovere l’autonomia e la dignità delle persone, favorire la partecipazione nella scuola, nel lavoro e nella società. Senza adeguati ausili, chi ha limitazioni motorie, visive, uditive o cognitive è esposto a situazioni di emarginazione, rischia maggiormente la povertà, può richiedere un grande impegno assistenziale alla sua famiglia e alla sua comunità. Ma in molte zone del mondo, purtroppo, tante persone incontrano ancora grandi difficoltà nell’avere gli ausili di cui hanno bisogno. Occorre investire di più nella ricerca, nell’industria, in servizi specializzati con personale preparato per aiutare la persona a individuare gli ausili adatti alla propria situazione, acquisirli, personalizzarli, imparare come usarli, gestirli.

L’OMS sta cercando di accelerare questi tutti processi, avendo recentemente definito gli ausili “il quarto pilastro delle strategie per la salute”, a pari importanza con farmaci, vaccini e dispositivi medici. Tanti ausili sono ancora sconosciuti a gran parte della popolazione, e magari sono reperibili solo presso piccole aziende specializzate, in qualche angolo del mondo. Fortunatamente, in molti Paesi ci vengono in aiuto dei Portali Internet specializzati, e a livello internazionale la rete informativa che hai citato, la rete EASTIN, che è un gran bel esempio di collaborazione internazionale in questo settore, con una trentina di Paesi coinvolti.

STEFANO

Bene. Ricapitoliamo quanto detto fin qui in quattro concetti:

Primo: La disabilità è una situazione, non una caratteristica intrinseca della persona: una situazione che si crea quando un mio limite incontra una barriera creata dalla società;

Secondo: Good design enables, bad design disables”: una buona progettazione (e il design universale è “buona progettazione”) produce abilità, una cattiva progettazione produce disabilità;

Terzo: L’accessibilità, quando è ben realizzata, migliora la qualità dell’ambiente per tutti: l’accessibilità è funzionalità, sostenibilità, bellezza, relazionalità;

Quarto: Le tecnologie assistive (ausili) sono fondamentali per sostenere l’autonomia: chiunque ne abbia bisogno deve avere la possibilità di conoscerle ed averle.

RENZO

Veniamo alle conclusioni. L’accessibilità non è solo una questione tecnica: è un linguaggio con cui l’ambiente mi dice “tu sei incluso, tu sei escluso”. È una sfida culturale interdisciplinare che coinvolge tante responsabilità: la politica, le organizzazioni della società civile, i servizi sociali e sanitari, l’industria, il turismo, l’educazione, l’arte, la comunicazione ecc… In questo quadro, a noi tecnici (architetti, ingegneri, designer, sviluppatori informatici, web designer ecc.…) è affidata una particolare responsabilità. Noi abbiamo il potere di costruire nuove barriere. Questo avverrà inevitabilmente se progettiamo un edificio o un oggetto o un dispositivo in modo tradizionale e pensiamo dopo a come renderlo accessibile.

STEFANO

Ad esempio: progettiamo ex novo una scuola con una scalinata sull’entrata principale, e poi facciamo un ingresso a parte “per disabili” creando così una separazione che non esiste in natura e che l’etica sociale non vuole.

RENZO

Abbiamo però anche il potere opposto, ossia quello di creare accessibilità. Questo avviene se la inseriamo tra i requisiti iniziali del progetto, a pari grado con la sicurezza, la funzionalità, la sostenibilità energetica, l’estetica ecc. Certamente la legislazione, gli standard e la normativa tecnica sono di grandissimo aiuto. Tanti stati, compreso il nostro, hanno ottime leggi. Ma la normativa da sola non basta, serve solo a stabilire dei punti comuni. Per risolvere i complessi problemi progettuali, per fare “good design”, non basta essere semplici esecutori di norma. Occorre mobilitare tutta la competenza, la creatività e la capacità d’innovazione che le arti dell’architettura, dell’ingegneria e del design sono capaci di esprimere: a condizione di essere sempre in attento ascolto delle esigenze delle persone, in continua ricerca di soluzioni sempre più efficaci, in continua rivalutazione del nostro modo di operare.

STEFANO

Dunque, l’idea di un ambiente accessibile – di un mondo ove nessuno, indipendentemente dalla propria condizione fisica o cognitiva, incontri più barriere architettoniche o tecnologiche o sociali che possano condizionare la sua mobilità, limitare le sue relazioni, impedirgli la sua piena realizzazione come persona e come cittadino – non può più essere confinata nell’utopia.

RENZO

Oggi con i mezzi e le conoscenze che abbiamo, questo sogno deve diventare realtà: è un prerequisito per la realizzazione di una società inclusiva, è parte di quell’ecologia integrale che vogliamo perseguire.